Casalgrande Padana al fianco degli architetti del futuro
07 Dicembre 2019

In occasione dei suoi 90 anni, CASABELLA ha organizzato, in collaborazione con Casalgrande Padana e Proviaggiarchitettura, una selezione che ha portato all’assegnazione di 4 tirocini all’interno di 4 studi di architettura della durata di 3 mesi.
Il primo dei quattro tirocini di formazione presso lo studio RPBW Renzo Piano Building Workshop di New York è stato assegnato a Gaia Calegari che nel 2018 ha conseguito, con il massimo dei voti, la Laurea Magistrale in Architettura presso il Politecnico di Milano, a svolgere il tirocinio nello studio di Eduardo Souto de Moura è stato Manuel Alves de Campos che nel 2018 ha conseguito la Laura Magistrale in Architettura presso l’Università di Lisbona. Il terzo e quarto dei quattro tirocini di formazione sono invece stati assegnati a Valerio Recchioni e a Martina Palmioli che hanno svolto il loro tirocinio rispettivamente presso lo studio Norman Foster and Partners e nello studio Nieto Sobejano entrambi a Madrid. Valerio Recchioni ha conseguito nel 2018, con il massimo dei voti e la lode, la Laurea Magistrale in Architettura presso l’Università di Ferrara, mentre Martina Palmioli ha conseguito, nel 2019, la Laura Magistrale in Architettura presso il Politecnico di Milano.
Il viaggio che desidero raccontarvi, parte da New York dove Gaia ci racconta che “le persone a New York corrono sempre, non hanno tempo da perdere e così camminare piano non è concepito. Anche a Milano corriamo spesso, ma quello che a Milano è diverso è la lunghezza delle strade perché ad un certo punto la strada curva oppure gira o si getta in una piazza. A New York no, la strada continua dritta per chilometri tanto da intravederne con fatica la fine. La lunghezza delle strade crea delle prospettive magiche e dà la possibilità all’occhio di guardare lontano: trovo il guardare lontano un momento di ristoro per gli occhi e per la mente. Le strade così lunghe hanno un’altra conseguenza simpatica: poter camminare di fianco alla stessa persona per moltissimo tempo!
New York
La magia delle scale in facciata, è la magia di NY
Se da un alto New York ha pochissimi metri quadrati per abitante, allo stesso tempo sembra che detenga il record massimo per numero di gradini a persona. New York è piena di scale: scale di ferro, scale di vetro, scale panoramiche, scale che non hanno una meta e scale concepite nella speranza di non essere mai usate, scale lunghissime e scale di pochi gradini, scale che non arrivano a terra e scale che toccano il cielo. Suppongo che tutto sia iniziato quando l’architettura di inizio ‘900, in un momento di massima espansione, trovò come migliore via di fuga in caso d’incendio, quella di far arrampicare delle scale in facciata e in poco tempo la città si riempì di inconsapevoli sculture leggere che si alzavano a ritmo irregolare. Pensando che sia un peccato lasciare che quei rampicanti di acciaio inutilizzati, gli americani li considerano oggi un prolungamento della loro dimora: così sono soliti sgattaiolare fuori dalla finestra, prendere la loro chitarra e con le gambe a penzoloni, iniziare a suonarvi, oppure considerarle un perfetto luogo dove abbandonarsi alla lettura o ad una chiacchierata in compagnia di un’amica.”
La magia delle scale a NY
Come primo esercizio nello studio di New York di Renzo Piano mi è stato chiesto di graficizzare una sezione. Subito la mia mente ha cominciato a ragionare su dove poter trovare le migliori texture per dare colore all’edificio, da che sito riuscire a scaricare le migliori foto di materiali per rendere esattamente l’idea del rivestimento della facciata, che effetti di photoshop poter dare per creare un’ombra perfetta e dare un senso di tridimensionalità al disegno.
Tuttavia, non appena Serge Drouin, partner di Piano e preziosa guida e maestro per il tempo che ho trascorso a NY, mi ha mostrato alcuni precedenti disegni da tenere come riferimento, ho capito che per poter realizzare ciò che mi stava chiedendo, non sarebbero state sufficienti le mie conoscenze tecniche sull’uso dei programmi, ma avrei dovuto soprattutto fare uno sforzo mentale sul senso dell’architettura.
Ogni edificio ha intorno a sé un’energia capace di entrare in empatia con le persone che lo abitano. Qualcosa di invisibile, qualcosa di immateriale che si estende oltre ai confini fisici dell’edificato. E’ quell’aurea che ci fa sentire bene in uno spazio, quella serie di vibrazioni che ci toccano nell’anima, quella serie di prospettive che ci regalano emozioni, sono i profumi che ci inebriano, le proporzioni che ci rilassano, i colori che ci fanno sentire vivi e i cambi materici che ci fanno percepire caldo o freddo.
Incredibilmente, nella sezione che dovevo realizzare l’edificio sarebbe rimasto bianco, sarebbe rimasto “spento”; quello da “accendere” era proprio l’energia intorno. Ho così cominciato a colorare le zone vive oscillando tra il giallo e l’arancione a seconda dell’intensità, ho creato spirali che avevano come centro l’apice della vita pubblica e creato frecce che indicavano dove era possibile rivolgere lo sguardo. Ho aggiunto il verde, capace di influenzare il benessere delle persone e creato dei simboli che rappresentassero i suoni nello spazio. Ho poi inserito le persone a indicare le relazioni e le attività che si sarebbero svolte: Serge mi ha spiegato che lo studio cerca sempre di garantire una parte del progetto ad uso pubblico, uno spazio regalato alle persone che possano viverlo e trovare lì un nuovo luogo dove creare ricordi, stringere relazioni, dove fermarsi, camminare e trascorrere il loro tempo.”
credit by RPBW
Gaia Galegari presso lo studio RPBW Renzo Piano Building Workshop di New York
Proseguo il viaggio a Madrid, presso lo studio Norman Foster in compagnia di Velerio Recchioni che ci accompagna con la delicatezza delle sue parole “E' proprio di ottimismo che parla questo piccolo racconto. Ottimismo che, un giorno qualunque di qualche anno fa, mi ha convinto che forse sarei stato bravo come architetto. D'altronde non esiste mestiere più bello di questo: quale altro mestiere ti permette di rendere reale ciò che in precedenza esiste solo nella tua testa?
Penso a mio nonno che senza un diploma ha disegnato la sua casa in ogni dettaglio e le ha dato vita. Quella casa sicuramente ospiterà altre vite, altre famiglie, perché la vita degli edifici non coincide mai con quella delle persone, ma sarà per sempre l'impronta di mio nonno su questo mondo. E' questo che vuol dire per me fare architettura, lasciare una testimonianza tangibile del proprio passaggio, una testimonianza che sarà importante per alcune persone e che le porterà a ricordarsi di te, forse, un giorno.
Non è un mestiere facile, molti ci hanno provato una vita intera senza mai riuscirci; io potrei non riuscirci. Ma è con tutto l'ottimismo che caratterizza la mia età che voglio provarci.
Mio nonno sosteneva che non mi avrebbe mai commissionato un grattacielo perché mancavo di esperienza. In nome dell'esperienza sono partito più volte per l'estero: per crescere, per capire e poi tornare.
Questa breve quanto intensa esperienza da Foster+Partners vuole essere un altro importante punto della mia formazione. Sin dal primo giorno ho potuto percepire, nelle sale dello studio, l'importanza del lavoro che veniva svolto al loro interno. Un lavoro collettivo che, grazie allo sforzo e al talento di molti individui, riesce da più di 50 anni a dare vita alle visioni di Norman Foster. La sua capacità di unire arte, bellezza e le più avanzate tecnologie, tramite un approccio sempre versatile e sperimentale, è una grande fonte di ispirazione per qualsiasi architetto.
Durante le mie precedenti esperienze professionali ho potuto imparare molto riguardo al significato dei luoghi, alla creazione di oggetti capaci di dialogare in maniera poetica con ciò che li circonda e questo tirocinio rappresentava per me un'importante opportunità per andare oltre, per scoprire altro. E' stata un'occasione per capire l'importanza vitale della tecnologia in architettura, capace di unire bellezza e funzionalità in modo tale da creare sempre qualcosa di nuovo per il benessere delle persone.
La bellezza di lavorare in uno studio come Foster+Partners è che tutto sembra possibile, tutto è realizzabile con il giusto sforzo e impegno e il confine tra realtà e utopia è sempre più sottile. Gli edifici di Foster rappresentano sempre una sfida a ciò che già esiste, alzando sempre l'asticella su ciò che può essere considerato "possibile". Alcuni edifici si nascondono nel sottosuolo per rendersi a malapena visibili dall'esterno, altri si librano in aria quasi come fossero privi di peso, in piena libertà. E' questo il caso del progetto su cui ho avuto la fortuna di lavorare, un candido padiglione espositivo posato con delicatezza su un edificio storico preesistente. Un edificio elegante quanto vistoso che nella mia mente avrei considerato troppo ardito da progettare e che qui, al contrario, continua a essere plasmato settimana dopo settimana fino al raggiungimento di una forma definitiva, che diventerà infine una realtà. I visitatori potranno godere di nuovi incredibili spazi che esisteranno grazie al lavoro e all'impegno del gruppo di giovani architetti di cui faccio parte anche io. Tutto questo non può che rendermi orgoglioso.
Ho avuto più volte occasione di incontrare l'architetto Foster di persona, sempre elegante, professionale e capace di ispirare tutta la squadra con i suoi numerosissimi disegni e osservazioni. E' percepibile in lui una grande passione che lo porta a viaggiare senza sosta in giro per il mondo. Nonostante il numero sempre crescente di incarichi e di progetti, è ammirevole la sua volontà e capacità di controllare anche il più piccolo dettaglio di ciascuno di essi. Ne sono la prova i suoi numerosi sketchbook pieni di annotazioni, calcoli e disegni dettagliati che vengono utilizzati da tutta la squadra come riferimenti indispensabili. Ho avuto la sensazione di trovarmi di fronte a una persona straordinaria, di quelle che hanno cambiato e continuano a cambiare la propria epoca.
Questa impressione viene rafforzata dall'aura di autorità che lo pervade e dal profondo rispetto che viene dimostrato da chiunque si rivolga a lui. Lavorare nel suo studio mi ha permesso di partecipare a eventi importanti come il Robotics Public Debate di quest'anno, una conferenza organizzata ogni anno dalla Norman Foster Foundation con lo scopo di investigare come le nuove tecnologie, la robotica e l'intelligenza artificiale cambieranno la nostra visione dell'architettura nel prossimo futuro. Tutto orbita attorno alle nuove tecnologie e come queste possano essere utilizzate dalle nuove generazioni di architetti e designers per anticipare il futuro, cercando di servire al meglio la società tramite un approccio interdisciplinare. Stampanti 3D, robotica, viaggi sulla Luna e su Marte; è evidente quanto siano disparati e molteplici gli interessi dell'architetto inglese e quanto tutto questo influenzi l'architettura che viene prodotta all'interno dei diversi uffici del suo studio ("Seguire un progetto è come pilotare un aereo"). Accanto ai progetti che possono essere considerati più "sensazionali" (grattacieli, ponti, aeroporti...) trovano spazio anche progetti di dimensioni più modeste, ma comunque capaci di avere un profondo significato per le comunità e un grande impatto sul nostro immaginario. E' questo il caso, per esempio, del Maggie's Centre a Manchester e della piccola cappella costruita sull'isola di San Giorgio a Venezia in occasione della Biennale di Architettura del 2018.
A ogni incarico viene dedicato lo stesso impegno e la stessa attenzione, a prescindere dalla scala di quest'ultimo. E' infatti possibile che siano proprio i progetti più piccoli a richiedere più tempo, abilità e esperienza. E' ammirevole il fatto che uno studio "globale" come questo non dimentichi questa tipologia di progetti, importantissimi per le comunità che ne usufruiranno. Questo tirocinio di formazione è stato per me una preziosa occasione per comprendere le parole che meglio incarnano la filosofia di Norman Foster: sperimentazione, ricerca, multidisciplinarietà. Durante le ore di lavoro infatti capita di occuparsi di qualsiasi tipo di incarico (produzione di elaborati grafici, impaginazione, allestimento di esposizioni, costruzione e assemblaggio di modelli...) e ciò permette di crescere molto e di ampliare il proprio ambito di interessi. Lo staff di Madrid non è molto numeroso e questo rende ogni componente dell'ufficio una risorsa preziosa capace di partecipare attivamente all'iter progettuale. Lavorare all'interno di uno studio di questa levatura è stata un’ottima possibilità per comprendere quanto sia complesso e sfaccettato il mestiere del progettista. Visite in cantiere, incontri e riunioni con capi, clienti e fornitori: i compiti dell'architetto non si limitano di certo al disegno tecnico. Sono certo che aver partecipato a queste attività abbia contribuito in maniera sensibile allo sviluppo del mio profilo professionale. Torno da Madrid con un prezioso bagaglio di nuove esperienze e con un ottimismo rinnovato nei confronti di questa splendida professione che ormai è parte integrante di me.
Da qui inizio a costruire il mio futuro".
“If you weren't an optimist, it would be impossible to be an architect” Norman Foster
A Madrid, ma presso lo studio Nieto Sobejano, si è trovata anche Martina“Occhi piccoli e assonnati, in strada con le labbra ancora umide di thè. Cammino a passo rapido sull’asfalto bagnato in queste otto di mattina in cui il sole ancora si fa desiderare. Poche persone in giro, respiro a pieni polmoni la rassicurante quiete di queste mattine autunnali prima di essere travolta dal caos della metropolitana. Sul mio viaggio per arrivare in studio credo che si potrebbe scrivere la sceneggiatura di un film: i bancali del mercato di Antòn Martin che prendono forma, l’insolita tranquillità di Plaza Santa Ana, i violinisti a Sol.. sembra di camminare nelle prove generali del grande spettacolo che prenderà vita qualche ora dopo come ogni giorno.
La metropolitana delle otto del mattino è una dimensione parallela che ti ingloba in cui la pace appena accennata sembra solo un lontano ricordo e le persone sembrano lottare perennemente contro al tempo sorpassandoti correndo sulle scale mobili senza fine. Nonostante io abbia sempre apprezzato quei venti minuti di strada da fare da sola la mattina per rimanere in silenzio a pensare devo ammettere che nel viaggio di più di un’ora che mi porta allo studio spesso la stanchezza prende il sopravvento. Ripenso a queste settimane in cui ho salutato per l’ennesima volta Bologna da un finestrino appannato in un giorno di nebbia, mi sono sentita felicemente inadeguata con i miei vestiti invernali nei ventisette gradi che mi hanno abbracciato, di sfuggita ho sbirciato la sera dalla finestra le vite degli altri dai tetti de La Latina, ho ripercorso in silenzio la scala del Caixa Forum e mi sono fermata ad applaudire ai ballerini improvvisati davanti al Reina Sofia.
Ho steso per la prima volta i panni in un patio condominiale, vissuto con la porta aperta e viaggiato in paesi lontani solo lasciandomi trasportare dall’odore di spezie e soffritti alle sette del mattino. Ho cercato di fare pace con alcune strade dando loro la possibilità di non essere solo un lontano ricorso, ho riso al Bernabeu guardando le persone perdere la voce per il Real Madrid, pianto di fronte alla violenza della corrida, e camminato per ore in una Gran Via silenziosa, inaspettata o semplicemente chiusa al traffico e sorseggiato sangria in una giornata di pioggia.
Da un mese circa ogni mattina raggiungo i ragazzi che lavorano al -1 di Calle Talavera 4. Sono arrivata il primo giorno con l’entusiasmo e la curiosità di chi almeno una volta ha trascorso l’intero pomeriggio in biblioteca sommerso dalle riviste che raccontavano dei progetti di Nieto e Sobejano. Ho incontrato per la prima volta il gruppo di persone giovani e dinamiche che lavorano da anni senza sosta nel dietro le quinte e che rendono tutto questo possibile. Mi rimane impresso fin dal primo momento lo sguardo schietto di Simone, da cui non si può scappare, il sorriso contagioso di Adriàn, la profondità di Jose, l’allegria di Valeria a tratti felicemente fuori luogo in un posto così austero. Condivido la scrivania con Nacho di cui mi stupisce, fin dai primi giorni, la gentilezza inaspettata e discreta, lo sguardo vispo nonostante il modo di fare schivo; ho avuto modo di osservarlo ogni tanto in quel sottile spiraglio che separa i due schermi di lavoro. Sono solo alcuni di un gruppo numeroso ma non dispersivo che lavora a ritmi serrati sui progetti. Le premesse all’inizio mi sono sembrate interessanti. Protagonista del lavoro in studio è un silenzio a tratti assordante a volte interrotto da qualche rara conversazione o risata che sembra stonare nell’ intransigenza e rigore che regnano sovrani.
Martina Palmioli presso lo studio Nieto Sobejano
Sono sempre più sicura come ricordava Bepper Severgini nel TEDx che si è tenuto a Matera nel 2016 della fortuna che ha una persona adulta di poter lavorare con giovani per la ricchezza che può derivare dall’unione di incoscienza ed energia, esperienza e capacità di sintesi. Credo nell’importanza della parola “incoraggiare” perché come viene incoraggiata e spronata una persona nel suo lavoro, sicuramente nel modo riconoscente in cui lui ti guarderà ci sarà il tuo incoraggiamento. Penso anche che non sia sufficiente nascondersi dietro a un modus operandi comune, tantomeno limitarsi a sottolineare il breve periodo nel quale si è sottoposti a certe condizioni e che il tempo fino ad arrivare al tema stesso dell’architettura non possa diventare un pretesto per dimenticarsi che prima di essere dipendenti o tirocinanti si stia parlando di persone. Il vero punto è che non credo che basti il venerdì sera per salvare tutto questo, tantomeno credo che bastino due giorni in viaggio per convincermi che tutto questo in fondo sia “giusto”, lascio comunque aperta per i prossimi mesi la possibilità di continuare a crescere e interrogarmi. I progetti, i concorsi, le consegne tutto questo..tutto questo in fondo è solo il resto.”
L’ultima tappa del nostro viaggio è in compagnai di Manuel Alves de Campos che ha svolto il suo tirocinio presso lo studio di Eduardo Souto de Moura; Manuel ci racconta simpaticamente la sua esperienza, attraverso una serie di disegni: “è ben conosciuto l’esteso numero di schizzi di Eduardo Souto e Alvaro Siza su vari tipi di carta: pacchetti di sigarette, carta igienica, sacche per il vomito sugli aerei, tovagliette per il pranzo ecc…che esprimono lo strumento ideale, come piccole finestre, per anticipare idee, soluzioni o risoluzioni. Spesso su questi schizzi si vedono ospiti estranei alle composizioni architettoniche: donne, uomini, giraffe, angeli o rospi, sono tutti invitati ad alloggiare nello spazio del progetto, talvolta indicando l’entrata dell’edificio, altre volte sembrano giocare all’interno dei confini spaziali della struttura; quelli che mi interessano maggiormente sono i vagabondi, liberi da proposte architettoniche. Durante questo stage ho pranzato quasi tutti i giorni nello stesso posto: una piccola taverna sul fiume Douro e invitavo questi ospiti, giocavo con loro, aprendo la finestra per mostrargli cosa c’era all’interno: alcuni abitavano già uno spazio, altri non sono mai esistiti… Di seguito i disegni sulla carta da pranzo dove, attraverso di loro, cerco di ritrarre l’atmosfera e il senso comune di quel luogo”.
Auguriamo a tutti voi un radioso futuro!